Conoscere le carni e i pesci, bandire una tavola e i suoi “piatti”, cuocere il pane o la pasta, preparare una salsa, sapere conservare verdura e frutta, tutti gesti apparentemente semplici e complessi insieme, ma ciascuno con un proprio contenuto ed espressione d’una cultura ben precisa in cui s’intrecciano storie sociali e passioni, saperi antichi ed orali o tecnologie produttive avanzate, luoghi diversi e riconoscibili con emozioni d’una precisa identità. Non è una semplice cultura del cibo ma il cibo come cultura, nella sua originaria naturalità come nelle sue successive trasformazioni. In questo senso il cibo diventa ed è cultura, non solo nei suoi aspetti naturali (che appagano per altro tutte le altre specie animali) ma anche quando lo si produce per quella trasformazione che gli uomini attuano creando il proprio cibo, cioè trasformandolo secondo varie tecniche ed usi di cucina e quindi consumandolo attraverso una serie di modi, criteri, valori simbolici e abbinamenti diversi. In tal senso il cibo non è quindi più un semplice patrimonio naturale quanto un elemento decisivo di tutta l’identità umana perché è capace di produrla e comunicarla in modi diversi e fortemente efficaci. In questa visione, del tutto concreta e consistente, il cibo diventa storia dei popoli, dei luoghi e della socialità, capace di “narrare” un territorio con le sue passioni e contraddizioni, di fornire emozioni che si insediano nella mente al di là del piacere momentaneo od anche quando è semplice risposta al naturale bisogno di fame. Ed in questo senso il cibo, inteso nella sua più ampia accezione (i piatti diversi, le tavole, le bevande, i luoghi del gusto), diventa un segno della qualità della vita, un patrimonio comune con diritto d’accesso più ampio possibile in una “economia della felicità” che non può riferirsi solo a privilegi e zone riservate. Ben altra cosa quando quel “cibo” diventa moda e speculazione, utilizzando l’alibi della cultura per poi perdere la propria identità originale trasformandosi, con un’esasperazione vertiginosa nell’interesse di pochi, quasi sempre auto referenziati, per lo sfruttamento di molti. Anche quando si parla di tradizione e innovazione, il cibo rimane con il suo grande patrimonio culturale perché in tutto ciò s’inserisce di diritto, e resta tradizione con tutto il suo sapere antico, le tecniche ed i simboli e valori connessi che ci vengono tramandati. Mentre diventa innovazione con tutto il suo vissuto nel tempo e con l’inserimento di nuovi saperi e nuove tecniche nel proporsi al presente ma anche individuando nuovi sbocchi e segnali del futuro. Gianluigi Veronesi Fondatore ed editore della rivista DEGUSTA®
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